La pittura di Cesare Bruno si situa in maniera precisa nell’ambito di una figurazione nettamente legata alle sue origini. Non a caso Bruno, artista piemontese ed alessandrino, nei suoi dipinti risente non tanto di allusioni metafisiche riferibili a nomi ben noti, ma proprio di quel l’aura, di quelle luci, di quell’atmosfera che tra il Tanaro e la Bormida illumina di una luce calda ed armoniosa la piana e le colline, ultime propaggini dell’Appennino.
È una luce, un colore che ha una sua chiarezza, che definisce i limiti delle forme, delle cose del paesaggio, le isola in una maniera limpida, un po’ ingenua a volte, ma con un fascino lievemente misterioso. Fascino che è dato proprio da quell’isolamento delle forme in spazi ampi, in superfici chiaramente definite. Una qualità dell’occhio, una proprietà nel concepire i limiti della composizione. Una certa freddezza, a volte data dal senso della misura proprio nel carattere dell’artista, della scuola vorrei dire alessandrina, e qui il nome di Morando mi viene alla penna, ed altri ancora proprio per il carattere tipico di questi artisti, che nella pittura e nel colore di Cesare Bruno trovano un chiaro svolgimento. Le stesure ampie di colore, un colore pensato, un colore mentale ma sensibile nell’architettura e nel ritmo della composizione.
Nei motivi delle sedie il gioco diventa emblematico, ed è qui in questa assenza della presenza dell’uomo che una certa aura metafisica si introduce nel quadro. Non si tratta di astrazione, evasione da una realtà che è sempre presente, proprio per questa mancanza della figura umana.
Finzione di un passaggio? Di un mondo in cui camminiamo come ombre, di cui resta solo l’immagine, terra in cui l’arte, la poesia, la pittura diviene l’unica realtà, l’unica verità, una conoscenza, una comunicazione dell’anima forse l’unica verità in cui si riflette la nostra ansia, la nostra presenza di uomini, ricordo di un passaggio,un attimo di luce.
Una sedia é il motivo dei quadri di Cesare Bruno. Una sedia di paglia, dallo schienale alto, che se può suscitare con le sue strutture rigide ritmi geometrici anche per la percussione del colore, però desta del pari improvvisi e ferali riferimenti a strumenti di tortura. Ha ragione Ernesto Caballo quando scrive (....) di non lasciarsi prendere dall’apparente tranquillità di questi quadri. Quando le sedie si infittiscono e invadono a schiere l'orizzonte, non è più un ritmo inseguito, ma una catena, quasi un sinistro reticolato che si snoda e recinge la terra a ribattere il senso di estraneità e di solitudine che tutti ci assilla. Direi che questa impressione si dilata non tanto per l’ossessiva ripetizione dell'oggetto, quanto per la nettezza con cui diventa segno e colore, e quindi immagine matura di espressività.